Coming Out

coming out as a gay guy

Non credo di aver mai pensato all’intero processo di coming out finché non me lo sono trovato davanti, come una scadenza non dichiarata che incombeva sulla mia testa. La cosa buffa è che nessuno lo stava aspettando tranne me. L’avevo costruito nella mia mente come un momento enorme e sconvolgente, ma il mondo non aveva fretta che io lo dicessi. È questo il problema del coming out: sembra che debba essere un evento culminante, e a volte lo è, ma la maggior parte delle volte non è una festa o un grande annuncio. È una realizzazione tranquilla, più interiore che altro.

Si parla molto della pressione del coming out, e sì, l’ho sentita anch’io. È un peso strano, come se ti portassi dietro un segreto che diventa sempre più pesante più a lungo lo tieni. Ma la verità è che nessuno te lo chiede. Non c’è un regolamento che dice che devi fare coming out a una certa età o dirlo a certe persone. Potete dirlo a tutti o a nessuno, ed entrambe le opzioni sono perfettamente valide.

Quando ho fatto coming out per la prima volta, mi aspettavo che tutto sarebbe cambiato. Pensavo che sarebbe stato come attraversare una sorta di soglia invisibile dove improvvisamente tutto avrebbe avuto senso, dove la mia identità sarebbe stata pienamente realizzata, non solo per me ma per tutti. Mi dicevo che una volta pronunciate quelle parole – “sono gay” – la mia vita sarebbe andata in qualche modo a posto. Ma non è stato così. Il cielo non si è aperto, non c’è stata un’improvvisa ondata di liberazione che mi ha investito. Mi sono sentito… regolare. Normale. Come dire che preferivo il cioccolato alla vaniglia o che volevo trasferirmi in una nuova città. Per il mondo non è niente di che, ma per me è stato un terremoto.

Il coming out è personale, profondamente personale. Ricordo di aver pensato che ci fosse un modo giusto e uno sbagliato di farlo, ma la verità è che non esiste. Ci si dichiara come si ha bisogno, quando si ha bisogno, a chiunque ci si senta sicuri di dirlo. Per alcune persone sono gli amici. Per altri, è solo una persona fidata, o forse nemmeno una persona, solo se stessi. All’inizio non l’ho detto alla mia famiglia. L’ho detto a un amico e mi è sembrato sufficiente. È un viaggio, non una gara. Alcune persone non sentiranno mai il bisogno di dichiararsi, e va bene così. Non ti rende meno valido, non rende la tua identità meno reale.

La parte più spaventosa per me non era nemmeno il racconto. Era l’attesa, il silenzio che seguiva. Dicevo le parole e poi mi tenevo forte, perché non si sa mai davvero come reagirà qualcuno. Ho imparato che a volte anche le persone che ti amano di più hanno bisogno di tempo. Non tutti sapranno subito cosa dire, e questo non è necessariamente un male. I silenzi imbarazzanti, i “grazie per avermelo detto” esitanti possono mettere a disagio, ma fanno parte del processo.

Si impara anche a valutare le persone. Ho iniziato in piccolo, con persone che sapevo mi avrebbero sostenuto. È quasi come testare le acque: si fa un accenno casuale a qualcosa di LGBTQIA+ e si vede come reagiscono. “Oh, hai sentito che Ellen si è sposata?” o ‘Mi piace come questo nuovo show accetti i personaggi queer’. A volte è sufficiente sapere questo. Altre volte è più difficile, più sfumato. Ma non c’è da vergognarsi a scegliere i propri momenti, a scegliere le proprie persone. La vostra storia, la vostra identità, vi appartiene. Nessun altro ne ha diritto.

Per coloro che stanno ancora cercando di capire, che portano ancora il peso del segreto, non c’è fretta. Forse non si vuole uscire del tutto allo scoperto. Forse la posta in gioco è troppo alta, il rischio troppo reale, e va bene anche così. Non dovete dare spiegazioni a nessuno. Non dovete convalidare la vostra identità a nessuno, nemmeno a voi stessi. Per molto tempo ho pensato che non dirlo ad alta voce mi rendesse meno gay, come se non lo stessi “facendo bene”, ma ho capito che non ha senso. Chi sei non viene sminuito da chi lo dici o da quando lo dici. Puoi prenderti il tuo tempo.

E c’è qualcosa che credo si perda nella conversazione sul coming out: non finisce mai. Non si fa coming out una volta e basta. Ho dovuto fare coming out ancora e ancora, ogni volta che ho incontrato qualcuno di nuovo. È un processo continuo, una serie di piccole conversazioni che ricordano al mondo che sì, esisto e no, non ho intenzione di nascondermi. A volte è estenuante, ma anche liberatorio. Ogni volta che lo dico, rivendico un po’ di più la mia verità, il mio spazio nel mondo.

Quindi sì, fare coming out fa paura, è incasinato e complicato. Ma è anche tuo, tutto tuo. Sei tu a decidere chi lo sa, quando lo sa e quanto di te stesso condividi. È la tua storia, la tua vita, e vale la pena di viverla alle tue condizioni, indipendentemente da ciò che sembra.

Ho deciso che il prossimo post sarà molto personale e parlerà più in dettaglio del processo che mi ha portato da chi pensavo di essere, a chi sono.

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